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Le nozze via internet possono essere legittime
mercoledì 14 settembre 2016 - 17:17

Il caso: una donna pakistana, residente in Italia, contrae matrimonio, alla presenza di due testimoni, collegandosi tramite Skype con lo sposo, mentre quest'ultimo si trovava in Pakistan.
L'atto vene registrato regolarmente dall'autorità pakistana, mentre in Italia l'ufficiale di Stato civile si rifiuta di fare altrettanto, in quanto "la modalità di celebrazione, in via telefonica o telematica, era da ritenersi contraria all'ordine pubblico, sul presupposto che costituisce principio fondamentale dell'ordinamento italiano, derogabile solo in casi del tutto eccezionali, la contestuale presenza dei nubendi dinanzi a colui che officia il matrimonio, anche al fine di assicurare la loro libertà nell'esprimere la volontà di sposarsi".

 

La sentenza: Tribunale e Corte d'Appello danno torto all'Ufficiale di Stato Civile e ragione ai coniugi. Sulla stessa linea la Cassazione (sentenza 15343/2016).
La Corte, dopo aver precisato che "il matrimonio celebrato all'estero è valido nel nostro ordinamento, quanto alla forma, se è considerato tale dalla legge del luogo di celebrazione, o dalla legge nazionale di almeno uno dei nubendi al momento della celebrazione, o dalla legge dello Stato di comune residenza in tale momento" ha poi concluso che "se l'atto matrimoniale è valido per l'ordinamento straniero, in quanto da esso considerato idoneo a rappresentare il consenso matrimoniale, esso non può considerarsi contrastante con l'ordine pubblico solo perché celebrato in forma non prevista dall'ordinamento italiano".
La sentenza ha avuto vasta eco sui mass media ma va precisato che le nozze "a distanza" sono state ritenute legittime in quanto contratte da soggetti stranieri, e quindi regolamentate dal diritto del Paese d'origine (non ritenuto in contrasto con i principi fondamentali del nostro ordinamento).

 

Settembre 2016

 

N.B. il presente articolo ha uno scopo meramente informativo e orientativo. Non può essere inteso, nemmeno in senso lato, come parere professionale. Nel caso di problematiche occorre sempre rivolgersi al proprio legale di fiducia e far esaminare il caso concreto al fine di ottenere un parere personalizzato e completamente attendibile.

Adozione di minori
martedì 19 luglio 2016 - 18:51

Anche la Cassazione si pronuncia favorevolmente sulla così detta stepchild adoption.

 

Il caso: una coppia omosessuale convive da tempo in Italia, dopo avere contratto matrimonio all'estero. Una delle due donne è madre di una bambina, concepita tramite procreazione assistita. L'altra donna si rivolge al tribunale dei minori in Italia e chiede di poter adottare la figlia della compagna. Il diritto le viene riconosciuto in entrambi i primi due gradi di giudizio. Il caso approda in Cassazione per la sentenza definitiva.

 

La sentenza: la Cassazione (sentenza 12962/16) conferma la sentenza impugnata. Secondo la Corte
l'adozione da parte di coppia omosessuale "non determina in astratto un conflitto di interessi tra il genitore biologico e il minore adottando, ma richiede che l'eventuale conflitto sia accertato in concreto dal giudice". Tecnicamente l'adozione è stata ritenuta ammissibile invocando l'art.44 della legge 184, che prevede per l'appunto che si possa procedere in "casi particolari" al di fuori degli stringenti requisiti di legge, purchè si ritenga che l'adozione faccia gli interessi del minore.

 

La sentenza, particolarmente importante e innovativa, si colloca nel solco di altre pronunce di merito che hanno già ritenuto ammissibile l'adozione del compagno (o della compagna) del genitore biologico. La così detta stepchild adoption, eliminata dal testo della legge sulle unioni civili, sta diventando realtà attraverso il contributo della giurisprudenza.

 

GIUGNO 2016

 

N.B. il presente articolo ha uno scopo meramente informativo e orientativo. Non può essere inteso, nemmeno in senso lato, come parere professionale. Nel caso di problematiche occorre sempre rivolgersi al proprio legale di fiducia e far esaminare il caso concreto al fine di ottenere un parere personalizzato e completamente attendibile.

L'assegno divorzile può essere dovuto anche in presenza di matrimonio di breve durata
mercoledì 29 giugno 2016 - 19:33

Il caso: due persone si lasciano dopo un matrimonio di brevissima durata (quindici mesi). In sede di separazione consensuale alla moglie viene attribuito un assegno di mantenimento. Nel successivo divorzio viene tuttavia rigettata, in entrambi i gradi di giudizio, la domanda della moglie stessa volta ad ottenere anche l'assegno divorzile. Ciò sulla base della seguente motivazione: "la convivenza fu comunque brevissima per effetto della immediata constatazione dell'impossibilità di una unione duratura tale da giustificare aspettative e affidamento del coniuge che ha subìto la separazione nelle sostanze dell'altro". La moglie presenta ricorso in cassazione.

 

La sentenza: la Cassazione (ordinanza n.2343/2016) accoglie il ricorso presentato dalla donna sulla base di un'articolata argomentazione e, per ciò che rileva in questa sede, in forza del seguente principio di diritto. "In materia di divorzio, la durata del matrimonio influisce sulla determinazione della misura dell'assegno previsto dall'art. 5 della legge n. 898 del 1970, ma non anche - salvo casi eccezionali in cui non si sia verificata alcuna comunione materiale e spirituale tra i coniugi - sul riconoscimento del 'assegno stesso, assolvendo quest'ultimo ad una finalità di tutela del coniuge economicamente più debole".

 

Va detto che nel caso in esame vi era notevole sproporzione tra il reddito del marito, 18.000 euro mensili, e quello della moglie, 1.300 euro mensili. Occorre quindi sempre contestualizzare le pronunce per evitare una loro interpretazione in qualche modo distorta.

 

Giugno 2016

 

N.B. il presente articolo ha uno scopo meramente informativo e orientativo. Non può essere inteso, nemmeno in senso lato, come parere professionale. Nel caso di problematiche occorre sempre rivolgersi al proprio legale di fiducia e far esaminare il caso concreto al fine di ottenere un parere personalizzato e completamente attendibile.

Se si posseggono immobili l'obbligo di versare il mantenimento può sussistere anche in assenza di reddito (ufficialmente non dichiarato).

 

Il caso: Nel corso di un procedimento di divorzio, sia in primo che in secondo grado, i Giudici dispongono che il marito sia tenuto a versare alla moglie un contributo mensile di mantenimento (assegno divorzile) sulla base di molteplici circostanze.
Il marito ricorre in Cassazione lamentando che egli, nelle more del processo, aveva cessato ogni attività lavorativa ed era quindi impossibilitato a versare alcunché in quanto sprovvisto di reddito.

 

La sentenza: la Corte di Cassazione (sentenza n.10099/2016), per ciò che qui si intende segnalare, respinge il ricorso sulla base di una fondamentale considerazione. "I suoi possedimenti" - leggasi le proprietà immobiliari del marito, n.d.r. - "riportati nelle denunce dei redditi e nella relazione catastale prodotta dalla moglie, necessitano di capacità di reddito, anche ai soli fini del loro mantenimento; la Corte di merito presume che da alcuni di essi egli tragga rendite locatizie (o comunque ne potrebbe trarre) che gli consentano un adeguato sostentamento".

 

Secondo la Suprema Corte, pertanto, a prescindere dalla circostanza che una persona dichiari o meno di percepire reddito, il fatto solo di possedere immobili può giustificare l'obbligo di versare un contributo di mantenimento. Va detto che le dichiarazioni dei redditi sono solo uno dei fattori da considerarsi ai fini della determinazione della debenza di un assegno divorzile. Il Tribunale può non considerarle attendibili (com'è evidentemente accaduto nella fattispecie) se le circostanze del caso inducono a ritenere che non siano tali. E' quindi anche sulla base di presunzioni che è possibile stabilire l'obbligo di contribuire al mantenimento.
Nel caso in esame secondo i Giudici era evidentemente pacifico che il marito percepisse una forma di reddito, in quanto occorre sostenere spese per la loro manutenzione (e comunque non può escludersi il ricavo di rendite non ufficiali dagli immobili stessi).

 

Giugno 2016

 

N.B. il presente articolo ha uno scopo meramente informativo e orientativo. Non può essere inteso, nemmeno in senso lato, come parere professionale. Nel caso di problematiche occorre sempre rivolgersi al proprio legale di fiducia e far esaminare il caso concreto al fine di ottenere un parere personalizzato e completamente attendibile.

L'Asl risponde per i danni causati dalla colpa dei medici operanti in struttura convenzionata.
mercoledì 29 giugno 2016 - 19:29

Il caso: un bambino subisce danni permanenti a causa di una ipossia nel corso del parto, a causa di assistenza e cure mediche ritenute non adeguate.
L'evento si verifica presso una struttura ospedaliera diversa da quella normalmente utilizzata dall'Asl di competenza (in quanto quest'ultima aveva i propri locali temporaneamente non disponibili) e con l'intervento di medici non direttamente dipendenti della stessa.
I Giudici condannano in solido con i medici anche l'Asl competente, in virtù degli artt. 1228 e 2049 cc. L'Asl fa ricorso in Cassazione.

 

La sentenza: la Cassazione (con sentenza n. 7768/ 2016) rigetta il ricorso sulla base del seguente principio di diritto: "Deve per altro verso ribadirsi che allorquando un paziente viene ricoverato in una struttura sanitaria gestita, in virtù di apposita convenzione, da un soggetto diverso dal proprietario, dei danni causati dai medici ivi operanti è tenuto a rispondere non già quest'ultimo bensì il soggetto che di tale struttura ha la diretta gestione, in quanto è col primo e non col secondo che il paziente stipula, per il solo fatto dell'accettazione nella struttura, il contratto atipico di spedalità (v. Cass., 8/10/2008, n. 24791)".
La sentenza in esame, pur con l'inevitabile prudenza con cui va esaminata la fattispecie, sembrerebbe pertanto estendere la responsabilità dell'ASL.

 

Giugno 2016

 

N.B. il presente articolo ha uno scopo meramente informativo e orientativo. Non può essere inteso, nemmeno in senso lato, come parere professionale. Nel caso di problematiche occorre sempre rivolgersi al proprio legale di fiducia e far esaminare il caso concreto al fine di ottenere un parere personalizzato e completamente attendibile.

SEPARAZIONE. DOVERI CONIUGALI
giovedì 09 giugno 2016 - 12:20

Sottrarsi ai rapporti intimi può portare all'addebito.

 

Il caso: una coppia si separa e nei giudizi di merito viene addebitata la separazione alla moglie perché la donna, dopo la nascita di un figlio, aveva rifiutato per anni ogni rapporto sessuale col marito, affermando di provare nei suoi confronti un sentimento di repulsione.
La causa finisce in Cassazione

 

La sentenza: la Corte (sentenza 19112/2012) rigetta il ricorso e conferma l'impugnata sentenza con queste motivazioni. "Il persistente rifiuto di intrattenere rapporti affettivi e sessuali con il coniuge configura e integra violazione dell'inderogabile dovere di assistenza morale (...). Tale volontario comportamento (...) legittima pienamente l'addebitamento della separazione, in quanto rende impossibile al coniuge il soddisfacimento delle proprie esigenze affettive e sessuali e impedisce l'esplicarsi della comunione di vita nel suo profondo significato".

 

Questa interessante pronuncia, se non può essere generalizzata (perchè come sempre è bene ricordare che ogni caso fa storia a sè) stabilisce il principio secondo cui il rapporto sessuale, almeno astrattamente, si configura come vero e proprio obbligo giuridico, per cui in caso di inadempimento è astrattamente ipotizzabile la "sanzione" dell'addebito della separazione.

 

Novembre 2012

 

N.B. il presente articolo ha uno scopo meramente informativo e orientativo. Non può essere inteso, nemmeno in senso lato, come parere professionale. Nel caso di problematiche occorre sempre rivolgersi al proprio legale di fiducia e far esaminare il caso concreto al fine di ottenere un parere personalizzato e completamente attendibile.

SULLA SCELTA DELLA SCUOLA DEI MINORI DOPO LA SEPARAZIONE
giovedì 09 giugno 2016 - 12:19

Separazione: in caso disaccordo i minori vanno iscritti alla scuola pubblica.

 

Il caso: Una coppia si separa. Aumentano le difficoltà economiche, ma la madre chiede che i due figli continuino a frequentare la scuola privata, nella fattispecie quella paritaria cattolica (sa bene che questa scelta comporta costi maggiori rispetto alla scuola pubblica, ma assegna molta importanza al fatto che i ragazzi siano istruiti con metodi didattici già sperimentati).
Il padre invece propende per l'iscrizione ad una scuola pubblica, anche in virtù delle difficoltà economiche conseguenti alla separazione.

 

La sentenza: il Tribunale di Milano (sentenza del 18 marzo 2016) decide che i figli della coppia debbano frequentare la scuola pubblica evidenziando come "pretendere che i figli continuino a godere del medesimo benessere che prima poteva essere garantito costituisce l'espressione di un diritto immaginario che non trova tutela nell'ordinamento giuridico".
Nella sentenza i giudici precisano altresì il ruolo dell'Istituzione pubblica con queste parole: "non si può dire che la scuola privata risponda al preminente interesse del minore, poiché vorrebbe dire che le istituzioni di carattere privato sono migliori di quelle pubbliche".
Pertanto, e in conclusione, laddove sussista conflitto dei genitori separati sulla frequenza dei figli tra scuola privata e pubblica, secondo il Tribunale di Milano, e in mancanza di evidenti controindicazioni, "la decisione dell'Ufficio giudiziario non può che essere a favore dell'istruzione pubblica".

 

Vale la pena ricordare in linea generale un elemento ovvio: la separazione rende i coniugi necessariamente più poveri (o comunque meno abbienti) di prima. Le scelte operate in regime di convivenza (sulla scuola, sulle attività sportive, sulle attività ludico-ricreative) non sempre quindi possono essere portate avanti.

 

MARZO 2016

 

N.B. il presente articolo ha uno scopo meramente informativo e orientativo. Non può essere inteso, nemmeno in senso lato, come parere professionale. Nel caso di problematiche occorre sempre rivolgersi al proprio legale di fiducia e far esaminare il caso concreto al fine di ottenere un parere personalizzato e completamente attendibile.

RISARCIMENTO DANNI DA ERRORE MEDICO
giovedì 09 giugno 2016 - 12:18

Ritardata diagnosi da patologia: si al risarcimento.

 

Il caso: Un bambino lamenta forti dolori addominali con vomito e viene accompagnato dai genitori al Pronto soccorso. Dopo una consulenza pediatrica e chirurgica viene dimesso. Come terapia viene prescritto un antidolorifico.
I sintomi peggiorano e i genitori portano di nuovo il bambino al P.S. che viene questa volta ricoverato e sottoposto ad ulteriori accertamenti. Successivamente viene operato d'urgenza per appendicite acuta e diffusa peritonite.
I genitori si rivolgono al tribunale per chiedere alla ASL il risarcimento di tutti i danni patiti in conseguenza dell'iniziale errore diagnostico dei sanitari. In particolare segnalano che se l'attacco di appendicite fosse stato subito riconosciuto, l'interevento sarebbe stato effettuato in laparoscopia, con tecnica quindi meno invasiva e minori rischi per il paziente, evitando inoltre cicatrici e aderenze.

 

La sentenza: il Tribunale (Taranto, sentenza n.21/2016) accoglie la domanda risarcitoria. Anche la ritardata diagnosi costituisce errore medico e può dar diritto al risarcimento se si configurano dei danni a carico del paziente (come nella fattispecie). Inoltre per ricollegare un evento lesivo ad un atto medico colposo occorre che sussista tra i due elementi un nesso causale non in termini di certezza ("oltre ogni ragionevole dubbio", come deve avvenire in sede penale) ma semplicemente di rilevante probabilità. Di qui la condanna dell'Asl a risarcire il danno.

 

Gennaio 2016

 

N.B. il presente articolo ha uno scopo meramente informativo e orientativo. Non può essere inteso, nemmeno in senso lato, come parere professionale. Nel caso di problematiche occorre sempre rivolgersi al proprio legale di fiducia e far esaminare il caso concreto al fine di ottenere un parere personalizzato e completamente attendibile.

SEPARAZIONE DEI GENITORI. OBBLIGO DI MANTENERE I FIGLI MAGGIORENNI
giovedì 09 giugno 2016 - 12:17

No all' assegno di mantenimento per il figlio che all'Università non rispetta il piano di studi.

 

Il caso: una coppia si separa. I due figli convivono col padre e la madre versa l'assegno di mantenimento necessario per la loro crescita. La donna chiede al Tribunale di essere esonerata dall'obbligo che le compete, essendo i figli ormai adulti e in grado di provvedere alle proprie necessità. Dopo i vari gradi di giudizio la controversia perviene in Cassazione.

 

La sentenza: la Cassazione (sentenza n.1858/2016) accoglie la richiesta della madre. Nella fattispecie, infatti, i due ragazzi, entrambi studenti universitari, avevano sostenuto pochissimi esami: il primo solo 4 nei primi tre anni di iscrizione all'università, il secondo solo la metà di quelli previsti nel corso di laurea (ed oltretutto era fuori corso da 4 anni).
La Corte ha pertanto ritenuto che i ragazzi non avessero colto l'opportunità loro offerta di frequentare gli studi, in modo da porre le basi per la propria autonomia economica.
Già in precedenza la Cassazione (sentenza 27377/2013) si era espressa per la revoca dell'obbligo di mantenimento a vantaggio di un figlio che non aveva trovato un lavoro né aveva terminato il corso di studi universitari.

 

Più in generale va detto che i figli non vanno mantenuti semplicemente fino al raggiungimento della maggiore età, ma fino al raggiungimento dell'indipendenza economica. Tuttavia se l'indipendenza economica non viene raggiunta per fatto e colpa dei figli l'obbligo di mantenimento viene comunque meno. Per usare sempre le parole della Cassazione "Il dovere di mantenimento del figlio maggiorenne cessa ove il genitore onerato dia prova che il figlio abbia raggiunto l'autosufficienza economica o venga provato che il figlio, pur posto nelle condizioni di addivenire ad una autonomia economica, non ne abbia tratto profitto, sottraendosi volontariamente allo svolgimento di una attività lavorativa adeguata e corrispondente alla professionalità acquisita".

 

APRILE 2016

 

N.B. il presente articolo ha uno scopo meramente informativo e orientativo. Non può essere inteso, nemmeno in senso lato, come parere professionale. Nel caso di problematiche occorre sempre rivolgersi al proprio legale di fiducia e far esaminare il caso concreto al fine di ottenere un parere personalizzato e completamente attendibile.

ANNULLAMENTO MATRIMONIO. DIRITTI DEI CONIUGI
giovedì 09 giugno 2016 - 12:16

L'omosessualità celata non è causa di annullamento del matrimonio

 

Il caso: dopo pochi mesi dal matrimonio la moglie rileva un comportamento strano nel marito. Questi è particolarmente nervoso, parla poco e si rifiuta di avere rapporti sessuali. Passano poche settimane e il marito dichiara di provare attrazione per "i maschi", dopo di che abbandona la casa coniugale.
La moglie si rivolge al Tribunale chiedendo l'annullamento del matrimonio: la "deviazione" del marito non consente lo svolgimento di una normale vita coniugale ed è viziato il consenso espresso per contrarre il matrimonio per effetto di errore essenziale su qualità personali dell'altro coniuge.

 

La sentenza: il Tribunale di Padova (sentenza n.3176/2014) respinge la domanda. Nel nostro sistema l'errore sulle qualità personali del coniuge è essenziale quando vi siano le condizioni di cui all'articolo 122 codice civile, norma che prevede che l'errore sulle qualità personali sia giuridicamente rilevante qualora riguardi l'esistenza di una malattia fisica o psichica o di una anomalia o deviazione sessuale, tali da impedire lo svolgimento della vita coniugale. Secondo il Tribunale "benché debba ritenersi che all'epoca della redazione della norma l'omosessualità fosse ritenuta alla stregua di una deviazione sessuale e l'intenzione del legislatore fosse quella di comprendere l'errore su tale deviazione tra quelli essenziali, l'attuale percezione medica e sociale ha definitivamente superato tale impostazione; da anni l'omosessualità è stata cancellata dal manuale che classifica i disturbi psichici cosicché l'omosessualità non può più qualificarsi come patologia, ma come caratteristica della personalità".

 

Il mutamento dei costumi porta evidentemente con sè anche un mutamento dell'interpretazione dottrinale e giurisprudenziale di norme scritte dal Legislatore molti decenni fa.

 

Ottobre 2014

 

N.B. il presente articolo ha uno scopo meramente informativo e orientativo. Non può essere inteso, nemmeno in senso lato, come parere professionale. Nel caso di problematiche occorre sempre rivolgersi al proprio legale di fiducia e far esaminare il caso concreto al fine di ottenere un parere personalizzato e completamente attendibile.

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